[:it]Nel pieno del periodo emergenziale, che ha colpito e stravolto l’Italia e il mondo intero a partire da febbraio scorso, in data 08.03.2020 è stato approvato il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri contenente ulteriori disposizioni attuative del Decreto Legge 23 febbraio 2020 n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 applicabili sull’intero territorio nazionale (il “Decreto Attuativo”).
In particolare l’art. 2 del Decreto Attuativo ha riconosciuto ai datori di lavoro la possibilità di implementare lo smart working per la durata dello stato di emergenza e, quindi, per un totale di 6 mesi decorrenti dal 31.01.2020, successivamente prorogati sino al 15.10.2020, anche in assenza di accordo scritto.
In data 11.03.2020 è stato, poi, emanato un ulteriore Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, il cui art. 1, oltre ad aver sospeso le attività commerciali in esso indicate, ha raccomandato, tra l’altro, di massimizzare l’utilizzo dello smart working per quelle attività che possono essere svolte dal proprio domicilio o in modalità a distanza anche se non interessate dalla sospensione.
Il Decreto Attuativo ha, altresì, previsto che gli obblighi di informativa relativi a tematiche correlate alla salute e alla sicurezza sul luogo di lavoro possano essere assolti in via telematica semplificata (anche via email) inviando l’informativa disponibile sul sito dell’Inail.
Anche a seguito della pubblicazione del Decreto dell’11 Marzo è, comunque, rimasto fermo quanto stabilito dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con nota del 24 febbraio 2020 e cioè che, in attuazione del Decreto Legge e, successivamente, del Decreto Attuativo, in sostituzione delle comunicazioni obbligatorie normalmente richieste, è possibile caricare a sistema una semplice autocertificazione in cui si possono inserire tutti i lavoratori per cui sia stato attivato lo smart working, così evitando la comunicazione prevista in casi ordinari.
L’obiettivo evidente è stato quello di agevolare il più possibile, semplificandone al massimo l’applicazione, lo smart working, che ha rappresentato lo strumento per risolvere la potenziale paralisi che il tradizionale modo e organizzazione del lavoro poteva provocare sulle aziende nel momento di emergenza.
La normativa, però, lascia aperto il problema di come supplire all’assenza di un accordo individuale con riferimento alla regolamentazione delle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro, degli strumenti utilizzati dal lavoratore, dell’individuazione dei tempi di riposo del lavoratore nonchè le misure tecniche organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche.
Appare, comunque, evidente che, sul punto, devono essere sempre rispettate e garantite tutte le ulteriori disposizioni di cui alla Legge 81/2017 in materia di smart working, ad esempio su: orario di lavoro, strumenti aziendali, tutela delle informazioni, diritto alla disconnessione, ecc.
Il settore assicurativo è il settore che, tra i primi in Italia, ha utilizzato e valorizzato lo smart working, che è stato regolamentato e disciplinato per il tramite di appositi accordi sindacali, ma molti lavoratori del settore, che mai in passato avevano sperimentato questa forma di lavoro, si sono viste, da un giorno all’altro, stravolte le proprie modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.
Una rivoluzione avvenuta senza preparazione e con l’urgenza dettata dall’emergenza sanitaria.
Questa emergenza ha inciso sulla “modalità” di fruizione da parte del lavoratore – che da volontaria è diventata obbligatoria – e sul concetto di “tempo” e in particolare del suo utilizzo in termini di giornate lavorative, con impatti imprevedibili sull’organizzazione del lavoro.
Molte realtà imprenditoriali hanno dovuto necessariamente bypassare la fase di sperimentazione, che caratterizza l’introduzione di tutti i progetti innovativi, per accedere immediatamente alla fase esecutiva/operativa a scapito di un accesso graduale e di una formazione specifica non tanto sulle modalità di utilizzo quanto sulla natura e sulle variabili individuali e socio-organizzative
Secondo molti, però, si dovrebbe parlare più propriamente di “home working”’, cosa ben diversa dallo smart working disciplinato dalla Legge n. 81/2017 e dal telelavoro: nella maggior parte dei casi, infatti, si è concretizzato in un mero trasferimento a casa dell’attività svolta fino a qualche giorno prima in ufficio. Gli strumenti sono spesso quelli propri, non è normato il diritto alla disconnessione, i lavoratori operano isolati dall’azienda e dai colleghi e possono subire svantaggi per la presenza in casa di bambini o anziani. Inoltre, mentre nello smart working si lavora da remoto in giorni stabiliti a settimana, con questa nuova forma di lavoro i lavoratori sono stati catapultati in un sistema senza apparenti limiti.
Molti lavoratori, a tal proposito, hanno affermato di lavorare di più e per più tempo da casa rispetto all’ufficio, con una complessità ulteriore, rappresentata dall’utilizzo contemporaneo di più device (computer, telefono, videochiamate in multipresenza, ecc).
Il lavoro da casa imposto dall’emergenza su ampia scala ha, poi, messo in evidenza anche i limiti strutturali della banda larga domestica nazionale, da cui sono esclusi il 76% degli utenti, contro il 40% della media UE.
La Legge 81/2017 prevede che il datore di lavoro metta a disposizione del dipendente gli strumenti per essere operativo da casa, ma nel pieno della crisi Covid-19 la normativa emergenziale ha chiarito che il lavoro agile poteva essere svolto anche con mezzi propri. Occorre, però, capire come rendere gli ambienti domestici conformi ai requisiti di sicurezza. Questa questione, così come molte altre, sono necessariamente passate in secondo piano durante l’emergenza, per ragione di tutela della salute da un lato, ma anche per poter continuare a produrre.
Alcuni ricercatori hanno sostenuto che lo smart working sia vantaggioso soprattutto per le donne, su cui pesa di più la gestione della famiglia. Secondo un recente rapporto della CGIL (Fondazione Di Vittorio, 18 maggio 2020), in base ad un’ampia indagine condotta tra il 20 aprile e il 9 maggio, però, “per le donne, questa modalità di lavoro è più pesante, alienata, complicata e stressante”, mentre per gli uomini lo smart working è indifferente al lavoro tradizionale o più stimolante. Durante il lockdown per le lavoratrici si è trattato di un aggravio del loro carico di responsabilità, perché oltre a lavorare a casa hanno dovuto gestire in contemporanea la famiglia.
Il rischio, dunque, è che dietro l’etichetta della conciliazione si perda l’equità tra i generi a discapito della crescita delle donne.
Le situazioni di rischio o comunque disfunzionali sopra delineate andranno in futuro adeguatamente considerate dalle aziende e monitorate con finalità di tutela dalle rappresentanze sindacali.
Occorre, infine, sottolineare che la funzionalizzazione del lavoro agile al contenimento del contagio e alla tutela della salute dei lavoratori costituisce il nucleo di due pronunce, un’ordinanza del Tribunale di Grosseto e un decreto del Tribunale di Bologna, entrambi del 23.04.2020, emessi all’esito di procedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., che risultano interessanti sia perché sono i primi provvedimenti giurisprudenziali sullo smart working durante la pandemia da Covid-19 sia perché sono, a quanto consta, le uniche pronunce giurisprudenziali in materia dall’approvazione della L. 81/2017.
I Giudici aditi sono stati chiamati, sostanzialmente, a rispondere al seguente quesito: è configurabile un diritto allo smart working ai tempi del Coronavirus?
Un simile diritto non è previsto per il lavoro agile in generale, atteso che, ai sensi della L. 81/2017, è possibile accedere al lavoro agile solamente mediante accordo tra le parti. Un diritto al lavoro agile non è stato riconosciuto per tutti i dipendenti neppure dalla normativa emergenziale, la quale, prevedendo che la collocazione in smart working possa avvenire mediante atto unilaterale del datore di lavoro, ha attratto la scelta del lavoro agile integralmente nel perimetro del potere organizzativo dell’azienda.
Analizzando la normativa emergenziale, con l’art. 39 del Decreto “Cura Italia”, il legislatore ha, però, conferito, fino alla cessazione dello stato di emergenza, un diritto potestativo all’accesso al lavoro agile ai dipendenti disabili nelle condizioni di cui all’art. 3, comma 3, L. n. 104/1992 o a quei lavoratori che abbiano nel proprio nucleo familiare un disabile nelle medesime condizioni, purché la loro prestazione sia compatibile con il lavoro agile. In questi casi, il datore di lavoro, verificata la “fattibilità” del lavoro agile in relazione alla prestazione del lavoratore, deve darvi corso.
Proprio in base a questa disposizione il Tribunale bolognese ha ravvisato il diritto della lavoratrice ricorrente, atteso che la stessa era convivente con la figlia, disabile grave.
Di diritti al lavoro agile, invece, non si può parlare a stretto rigore con riferimento alle altre disposizioni emergenziali. Il legislatore, nel settore privato, ha “raccomandato” “il massimo utilizzo” da parte delle imprese del lavoro agile per le attività con esso compatibili, raccomandando, però, allo stesso tempo, che vengano “incentivate le ferie e i congedi retribuiti per i dipendenti nonché gli altri strumenti previsti dalla contrattazione collettiva”.
Tuttavia, la scelta del datore tra il lavoro agile e gli altri istituti non è del tutto libera, sia perché, con riferimento al lavoro agile, si parla di “massimo utilizzo” sia in quanto l’uso di ferie, congedi o altri istituti è consentito, ferma restando la possibilità di proseguire l’attività lavorativa in modalità agile.
In altre parole, il legislatore esprime una chiara preferenza per il lavoro agile, laddove possibile nel caso concreto, rispetto ad altri istituti, in quanto strumento idoneo a coniugare l’interesse datoriale alla produttività con quello al lavoro del dipendente e con quello più generale alla salute, così tracciando le coordinate per il bilanciamento di interessi che dovrà effettuare, in prima battuta, il datore di lavoro e, in seconda, il Giudice.
Sulla scorta delle richiamate disposizioni emergenziali, la scelta datoriale di impedire lo smart working può dirsi legittima, in quanto proporzionata, quando ricorrono congiuntamente due condizioni: a) le mansioni del lavoratore, per loro natura, possono essere svolte solamente presso la sede aziendale; b) le mansioni del lavoratore risultano essenziali affinché l’attività produttiva possa proseguire durante lo stato di emergenza.
Laddove, dunque, nonostante l’assenza delle due condizioni esposte, il datore rigetti la richiesta del lavoratore di essere collocato in modalità agile, opponendo di non potergli fornire una strumentazione tecnologica adeguata, il Giudice dovrà verificare se tale rigetto sia sorretto da una reale giustificazione – il che vincolerebbe il datore a porre in congedo o in ferie il dipendente -, configurandosi al contrario un rifiuto illegittimo.
È quindi in tale evenienza che può configurarsi un diritto al lavoro agile.
Deve, peraltro aggiungersi che, laddove l’opzione per il lavoro agile sia possibile, la priorità deve essere accordata ai lavoratori “affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa”, dovendosi così risolvere il bilanciamento di interessi tra i dipendenti a favore di chi corra maggiori rischi per la propria salute, atteso che il Covid-19 può essere letale per chi soffra di patologie pregresse.
Il Tribunale di Grosseto, proprio sulla base dei principi sopra enucleati, ha accolto la domanda del lavoratore. Più che parlare apertamente di un “diritto” al lavoro agile, il Giudice effettua un controllo di legittimità sull’atto datoriale dell’adibizione del ricorrente alla prestazione “tradizionale”, ravvisandone l’illiceità perché non rispettoso del bilanciamento di interessi prefigurato dal legislatore dell’emergenza.[:]